La morte nel Medioevo

Il trionfo della morte, Giacomo Borlone de Buschis, 1485 ca, Bergamo

La morte è paradossale: pur essendo uno dei momenti più significativi nella vita di una persona, perché la conclude e intorno ad essa il pensiero ha elaborato innumerevoli riflessioni e rappresentazioni, non è traducibile in alcuna esperienza. Nessuno, infatti, può sperimentare direttamente la propria morte se non nel momento del suo compimento, ma tutti assistiamo alla morte altrui.

L’atteggiamento medievale verso la morte è a metà strada tra rassegnazione passiva e fiducia mistica. Per l’uomo medievale, la morte è fonte di timore: l’anima dell’individuo, secondo la sua condotta in vita, poteva subire una punizione senza fine o essere premiata con la vita eterna.
Se la morte naturale intimoriva, la morte prematura era il terrore dell’uomo. “A subitanea et improvisa morte, libera nos, Domine” era la preghiera che quotidianamente i cristiani innalzavano a Dio: evitaci, Signore, di morire di colpo, senza avere nemmeno il tempo di confessarci.
Nel Medioevo la morte è anche il riconoscimento di un inevitabile destino, una ciclicità della vita paragonabile alle stagioni. Per questo essa andava “vissuta” in prima persona dal morente, nel proprio letto, e in seconda persona da tutti quelli che gli erano vicini, donne, uomini, bambini, anziani. Tutti partecipavano a questo evento visto nella sua naturalezza e vissuto con semplicità, ordine e calma, senza eccessiva emozione e drammaticità. In riferimento alla nuova visione cristiana nella morte l’uomo medievale vedeva la fine del corpo, ma anche il preludio al giudizio divino dell’anima del defunto. Per questo era indispensabile morire “in pace con Dio”, senza peccato, quindi dopo essersi confessati e aver recitato le preghiere.
A partire dal XIV secolo, il periodo della peste nera e della grande crisi del Basso Medioevo, la morte divenne un evento quotidiano. Nel detto religioso-popolare “A peste, fame et bello libera nos, Domine” si possono riconoscere le tracce dei grandi e ricorrenti eventi tragici relativi alla crisi del Trecento, ovvero la peste, la fame e la guerra.

Fin dall’inizio dell’Età medievale, soprattutto nelle zone rurali, i rituali della morte erano pregni di costumi ancestrali e pagani che il cristianesimo cercò di eliminare o, quando non era possibile, di cristianizzare. Ad esempio, la credenza popolare che la morte prematura portasse l’anima “in pena” del defunto a vagare tra i vivi, perché il morto non era in “pace con Dio”, portò la Chiesa a “creare” un luogo intermedio tra Inferno e Paradiso, dove le anime attendevano che i vivi, con le loro preghiere, ne ottenessero la salvezza, venne così elaborato il concetto di Purgatorio.

Infatti prima dell’anno 1000 le anime dei defunti se erano meritevoli ascendevano in Paradiso, raffigurato come un giardino fiorito in cui essi beatamente oziavano, oppure, coloro che in vita erano stati malvagi, bruciavano all’Inferno: non c’era una soluzione intermedia per chi, pur non avendo grossi meriti, non era poi completamente malvagio. Tuttavia, se le anime avevano bisogno delle intercessioni dei vivi doveva pur esistere un luogo di confine nel quale le anime dei morti potessero riscattarsi con le preghiere dei vivi, inoltre si era soliti credere che queste anime sfortunate soggiornassero nei pressi del luogo dove avevano trovato la morte al fine di apparire con più facilità a chi era rimasto in vita. La fonte più autorevole in materia furono gli scritti di Sant’Agostino (De cura pro mortis Gerenda e De Civitate Dei), nei quali egli asseriva che i morti, se appaiono ai vivi è solo per opera di Dio e non appaiono col loro corpo ma con lo spirito, esclusivamente per chiedere d’essere sepolti o per ricevere preghiere. Qualora un morto si presenti ad un congiunto con il proprio corpo la colpa è del Diavolo, ma anche il Diavolo non può nulla senza il benestare del Signore. Di conseguenza le apparizioni dei fantasmi erano “legittime”, mentre quelle dei defunti “in corpore” erano frutto del malvagio operato di Satana.

La cristianizzazione di certi riti legati al culto dei morti, iniziò con la cultura monastica per poi diffondersi rapidamente tra la popolazione. Tra il 1024 e il 1033 il monastero di Cluny istituì la festa dei morti che si sarebbe svolta ogni anno il 2 novembre, dopo il giorno di Tutti i Santi. In questa giornata si recitavano le preghiere per le anime del Purgatorio al fine di accorciare la loro permanenza in quel luogo di transizione dal quale potevano, col permesso di Dio, affacciarsi al mondo dei vivi per esortarli a compiere qualche azione che desse loro sollievo nell’attesa di congiungersi a Dio.

IL RITO FUNEBRE

Le prime importanti fonti scritte sui riti funerari sono costituite dal rituale del convento di Rheinau (XII secolo), dal Liber Ordinarius (1260) e dal libro degli statuti del Grossmünster di Zurigo (1346, riguardante anche i laici). Secondo queste fonti, alla Morte era legata una serie di atti rituali, tra cui la Commendatio animae (preghiera perché l’anima venisse accolta nel Regno dei Cieli) in punto di morte, l’annuncio del decesso con rintocchi di campana, la vestizione del defunto, la veglia funebre, per i laici l’ultima benedizione nella casa in cui era avvenuto il decesso, il corteo funebre fino alla chiesa accompagnato da salmi, l’esposizione del feretro nella navata della chiesa, la celebrazione di diverse messe per i defunti con offerte, il corteo funebre fino alla tomba, l’inumazione e la sepoltura, la preghiera al cimitero o in chiesa e la commemorazione dei defunti. Quest’ultima comprendeva una messa di suffragio e una processione fino alla tomba il terzo, il settimo e il trentesimo giorno dopo il funerale, oltre che nel giorno dell’anniversario del decesso (Obituario).

Per le persone degli strati sociali medi e bassi i riti funerari si svolgevano nell’ambito della cerchia famigliare, del vicinato, della corporazione o della confraternita. Corporazioni e confraternite disponevano in particolare di casse per le spese funerarie, si occupavano del corteo e della commemorazione collettiva dei defunti nei giorni degli anniversari, di Ognissanti e dei Morti. Il significato della maggior parte dei riti funerari tardomedievali era di proteggere le anime dei defunti dal demonio e di abbreviare la loro permanenza nel purgatorio. Le salme venivano sepolte con le mani giunte in preghiera o con le braccia conserte, come se stessero dormendo fino al momento della resurrezione nel Giorno del Giudizio (stato intermedio detto refrigerium interim). Anche la vestizione del defunto era una sorta di preparazione al Giudizio Universale. Come atti di modestia o di sottomissione vanno intesi la sepoltura nel lenzuolo funebre senza bara, l’uso della veste da penitente o il desiderio dei laici di essere sepolti con il saio.

Si riscontrano tuttavia anche comportamenti opposti: per i membri del clero e della nobiltà il corteo funebre era accompagnato da una banda di suonatori e da uno stuolo di prefiche che piangevano a comando e mediante ricompensa. Le donne imparentate col morto si laceravano i vestiti, si strappavano i capelli e si contorcevano in convulsioni quasi isteriche. Se il defunto era un rinomato uomo pubblico, sfilava una processione di cavalli bardati e sbandieratori;  inoltre dopo il corteo funebre si consumava un ricco pranzo a cui partecipavano tutti i familiari. In base alla loro carica si facevano inumare con i paramenti sacerdotali o in abiti cavallereschi, a volte persino in atteggiamenti cortesi come le gambe incrociate, per poter conservare la propria condizione sociale anche nell’aldilà.

LA SEPOLTURA

Esequie di Santa Fina, Ghirlandaio, 1475 ca, San Gimignano

La sepoltura dei morti in epoca medievale viene effettuata nei pressi delle chiese. Particolarità di questo tipo di sepoltura è la mancanza di iscrizioni sulle tombe che diventano completamente anonime.

Oltre alle sepolture all’interno della chiesa vera e propria, venivano utilizzati anche il cortile, l’atrio, il chiostro (talora definito ossario) e tutte le zone limitrofe all’edificio religioso consacrate. La sepoltura quindi doveva avvenire “ad sanctos et apud aecclesiam”, ovvero vicino ai santi e presso le chiese. Infatti, il prestigio della sepoltura aumentava nel momento in cui si trovava nelle vicinanze delle reliquie di un santo.

Per questa ragione, i ricchi aristocratici potevano essere seppelliti all’interno della chiesa mentre ai poveri spettava la tumulazione all’interno di fosse comuni ubicate nel recinto esterno o intorno alle mura; fosse comuni dalle quali si traslavano periodicamente le ossa che venivano riposte negli ossari.
Le famiglie nobili infatti, possedevano all’interno della chiesa la loro cappella privata, la quale era dotata di “moria” o sepolcro, in cui venivano deposte le spoglie degli appartenenti al nobile casato.
Si poteva essere sepolti all’interno di questa “moria” solo dopo il pagamento della cosiddetta quarta funeraria.

Lo spazio esterno alla chiesa veniva definito “corte” ed è proprio da questa espressione che nascono i primi termini per indicare i cimiteri (in italiano, per esempio, si arriverà alla definizione di “camposanto”).

Oltre al tradizionale metodo di sepoltura esistevano anche altri metodi di tumulazione dei defunti, seppur poco utilizzati o comunque adoperati soltanto in casi eccezionali.

Un primo esempio da riportare è quello della mummificazione, effettuata dalle sapienti mani di chierici ed alchimisti attraverso l’utilizzo di erbe, creme e medicinali. Diversi personaggi storici di quest’epoca furono mummificati per far sì che continuassero a “vivere” anche dopo la loro morte.

Altro caso di sepoltura non convenzionale si aveva quando una città si trovava sotto assedio ed il cimitero non era raggiungibile. Sebbene per i Cristiani rappresentasse qualcosa di sacrilego, in questi casi, si ricorreva all’utilizzo di fosse comuni all’interno della stessa città per cremare i cadaveri dei morti, oppure, in condizioni ancora più estreme, si cercava di avvelenare le acque circostanti la città gettando i cadaveri nei fiumi o nei corsi d’acqua limitrofi.
La sepoltura divenne anche un metodo punitivo come ad esempio in Danimarca, dove nello statuto di Ribe del 1269, per i ladri di sesso femminile era indicata la sepoltura prematura, ovvero da vivi, come condanna. Sempre in Danimarca, la stessa pena fu indicata per le adultere durante il regno di Margherita I (10 agosto 1387 – 28 ottobre 1412).

IL NECROFORO

II necroforo sotto diverse vesti più o meno ufficiali ha sempre occupato un ruolo ben distinto nelle pratiche funebri e di sepoltura dei morti anche se, per molti secoli, il contatto con il corpo del defunto era esclusivamente riservato ai suoi più stretti familiari. Il termine necroforo dal verbo greco νεκρόφόρος composto di necroεκρό / morto) e foro (φόρος / portatore) indica esplicitamente la persona deputata al trasporto dei morti, alla loro sepoltura.

Nel Medioevo l’esperienza della morte ritornò a rappresentare un evento pienamente accettato e socialmente condiviso dall’intera comunità, la sepoltura del corpo spettava esclusivamente ai familiari del deceduto; il compito del becchino, che solitamente era una persona povera o un mendicante, era semmai quello di scavare la fossa; mentre la gestione del cimitero era affidata esclusivamente al prete.

Tra il 1347 e il 1352 una  epidemia di peste colpì tutto il continente europeo decimandone la popolazione; questo flagello obbligò alcune persone ad occuparsi, dapprima estemporaneamente e poi in modo specifico, del trasporto dei morti e della loro inumazione o cremazione. Fu in questo periodo che la figura del necroforo, come conseguenza del suo costante contatto con i defunti, cominciò gradualmente a strutturarsi come un vero e proprio mestiere ed anche la sua diffusione crebbe sempre di più. Tuttavia, insieme alla sua affermazione cominciò a mutare drasticamente anche il modo in cui esso veniva percepito a livello sociale richiamando su di sè una forte carica di superstizione e stigma; a ragione del frequente contatto con i cadaveri, si ritenne che la persona deputata a questo compito portasse sfortuna. A testimonianza di queste credenze vi è la variegata declinazione, nel corso dei secoli del termine necroforo nei diversi dialetti regionali della penisola, che indica questo mestiere con parole spesso ingiuriose: schiattamuorto, cacciamuorte, pizzegamorto, campusanteri, beccaio, affossatore, seppellitore, fossore, etc. L’appellativo che però ebbe più popolarità, tanto da resistere ancora oggi nel linguaggio comune, fu quello di becchino o beccamorto. Questo termine pare derivi dalla pratica del medico condotto che, per constatare l’avvenuto decesso della persona, era solito infliggere dolore pungendo in modo deciso il corpo del deceduto; se il malcapitato fosse stato ancora vivo non avrebbe resistito al dolore e si sarebbe mosso oppure avrebbe urlato; beccare il morto significava quindi scovare chi fingeva di essere defunto e chi invece era morto davvero. Un’altra mansione del becchino, in questo periodo, era quella di vagare per le campagne ed i boschi nell’intento di recuperare i corpi delle persone decedute per poter dare loro una sepoltura; ciò veniva fatto essenzialmente per questioni legate alla salute pubblica ma non si può escludere che venisse fatto anche per compassione nei confronti di persone morte in estrema solitudine. Durante la pestilenza del Trecento i medici della peste erano soliti indossare una lunga veste nera cerata ed una maschera rigida con un grosso naso a punta per proteggersi dal contagio del morbo; anche i becchini si dotarono di una divisa che consisteva in una mantella lunga e nera con un cappuccio che terminava a punta, denominata becca. Quando si bruciavano i corpi di persone morte a causa di una epidemia i becchini mettevano sul volto una maschera contenente spugne imbevute d’aceto ed essenze profumate per impedire l’inalazione di cattivi effluvi.

FONTI:


a cura di Isidora Naddei