Immanuel Romano / Manoello Giudeo

Immanuel Romano (o in altre fonti Immanuel da Roma, ‘Immanu’el ben Šelomoh, ‘Immanu’el ha-Romi, Manoello Giudeo, Manoello Romano, Emanuele Romano) nacque a Roma, come egli stesso più volte ricorda nelle sue opere presumibilmente nel 1261.

Il padre si chiamava Šelomoh e aveva la qualifica di rabbino e apparteneva all’importante famiglia ebraica Zifronì, il cui nome indicava la provenienza da Ceprano, un paese del Lazio meridionale.

In gioventù Immanuel studiò, oltre che con Zeraḥyah, anche con il medico Benyamin ben Jeḥiel e questo ha fatto ritenere ad alcuni che Immanuel abbia esercitato la professione medica. Senz’altro a Roma compì studi rabbinici, testimoniati dalla sua intensa attività di commentatore di testi biblici e filosofici; l’attività poetica non sembra invece da ascrivere al suo primo periodo di formazione.

Immanuel sposò Ester figlia di Šemuel, rabbino della comunità ebraica di Roma, dalla quale ebbe almeno due figli: Šelomoh, e Mosè, che purtroppo morì bambino e per la morte del quale Immanuel compose un’elegia.

Quando Immanuel lasciò Roma soggiornò nei paesi dell’Italia centrale quali Fabriano, Gubbio, Perugia, Orvieto, Ancona, Camerino e, in ultimo, Fermo dove in vecchiaia mise insieme le Maḥberot. In questi luoghi, come ci attestano le stesse Maḥberot, Immanuel visse probabilmente godendo della protezione di banchieri ebrei dediti anche agli studi, per le famiglie dei quali fu forse anche precettore. Fu amico di Cino da Pistoia e Bosone da Gubbio.

A testimonianza della fama che Immanuel doveva aver raggiunto tra i contemporanei, nella prima delle Maḥberot il sar (principe o signore, protettore) di Fermo si rivolge a Immanuel dicendogli: “Mi sono stupito nel conoscere la tua rettitudine, ho udito la fama della tua sapienza e che sei il primo tra gli abitanti nel regno di intelligenza e di scienza, e sei stato tra i primi esperti della Torah e della Testimonianza; ho udito alcuni dire che tu governi la mano dei solleciti nello studio e che perfezione grande tu sei per chi ama la Torah”.

Dopo il 1312 Immanuel si recò anche a Verona, e fu in diretto contatto con la corte di Cangrande I della Scala, proprio negli anni in cui vi soggiornava anche Dante Alighieri. Alcune fonti nono solo fanno presumere che i due letterati si sarebbero direttamente conosciuti, ma anzi, che sarebbero stati amici; alcuni studiosi identificano con Dante il personaggio di nome Daniele che accompagna Immanuel nel viaggio tra l’Inferno e il Paradiso oggetto dell’ultima maḥberet.

La morte di Immanuel Romano avvenne a Fermo presumibilmente fra 1328, anno ricordato all’interno delle Maḥberot, e il 1336-37, periodo in cui morì Cino da Pistoia.

Due sono le principali tipologie di opere in cui Immanuel si esercitò: il commento ai testi sacri e le composizioni poetiche; scrisse anche un trattato grammaticale, il Sefer Boḥan, conservato manoscritto presso la Biblioteca Palatina di Parma, e un trattato, il Sefer be-viur Ṣurat ha-otioth, andato perduto, sul significato mistico della forma delle lettere dell’alfabeto ebraico.

I commenti composti da Immanuel coprono pressoché tutto l’insieme dell’Antico Testamento. Dopo aver esposto il significato letterale del testo, che comprende anche osservazioni di tipo grammaticale ed etimologico, Immanuel tratta del suo significato allegorico, spingendosi talvolta anche ad affrontarne il significato mistico. Per la composizione dei suoi commenti ha usato le conoscenze che gli provenivano dalla sua formazione rabbinica nonché alcune nozioni, soprattutto di carattere filosofico, che ha tratto dagli scritti di Jehudà da Roma. In particolare nel Commento alla Genesi ha usato il Commento all’opera della creazione di Jehudà da Roma.

Il contributo più originale però lo ha dato senz’altro allo sviluppo della letteratura ebraica postbiblica con la sua opera principale, le Maḥberot, un testo composito, strutturato in ventotto capitoli in cui si alternano prosa e versi, che furono composti da Immanuel Romano in periodi diversi e raccolti insieme nella vecchiaia, nel periodo in cui soggiornò a Fermo.

Immanuel Ben Shelomoh Sefer Machbereth ‘Immanu‘el… Costantinople, ben Gersom Soncino Eliezer, 1535.

L’occasione della raccolta viene narrata dallo stesso autore nell’introduzione all’opera: “mentre i miei giorni declinavano alla sera e dalla maturità ero passato alla vecchiaia, fui come uccello che dal nido fugga; e a Fermo, nella Marca fui, là dove incontrai cortesi uomini di fede, che nel regno di conoscenza e sapienza dimoravano […] E dopo il banchetto di Purim accadde […] e a dimorare in rigoglioso prato ci adunammo; e lì i nostri libri distendemmo e le nostre anime colse il desiderio di dire soltanto poesie e prose fiorite”: durante questa adunata alcuni declamarono dei versi di Immanuel Romano attribuendosene la paternità e un sar, probabilmente il protettore di Immanuel stesso, lo consigliò di raccogliere tutti i versi da lui composti in un unico libro: “Vieni e raccogli delle tue poesie e delle tue prose ogni schiera, e le parole della tua esultanza, dalla più grande alla più piccola, raccoglile in un libro, scrivi parole di gioia, poiché io ho visto il libro del rav Yehudah Harizi, che egli colmò di poesie e prose impresse di gran forza, e di sentenze sempre nuove che ignoravano gli antichi”. In questo brano è chiaramente indicata l’ascendenza letteraria delle Maḥberot: il poeta ebreo spagnolo Jehudà al Harīzī, vissuto un secolo prima, fu tra i principali scrittori di maqamot, genere tipico della letteratura araba medievale mutuato nella letteratura ebraica proprio da al Harizi, in cui si alternano prosa e poesia in stili diversi. Nei ventotto capitoli che compongono le Maḥberot i temi sono i più diversi: dall’autobiografismo della prima maḥberet, dedicata al destino inteso come scorrere ineluttabile del tempo e all’impotenza dell’autore-personaggio nei confronti di questa forza divina, si giunge all’ultima, in cui l’autore stesso si fa giudice di chi è vissuto prima di lui e dei suoi contemporanei destinandoli per l’eternità alle pene dell’Inferno o alla beatitudine del Paradiso. Il rapporto di quest’ultima maḥberet con la Commedia dantesca sembra essere evidente, anche considerando che, come prima si ricordava, è stato ipotizzato che la guida del viaggio di Immanuel nei regni oltremondani possa essere proprio Dante. Più imponente è però il debito che Immanuel Romano ha contratto con la tradizione poetica ebraica precedente, nella quale si inserisce rispettandone sostanzialmente i temi e lo stile, in cui prevale l’uso insistito di citazioni bibliche, ma nella quale propone anche innovazioni, soprattutto di tipo metrico con l’adattamento dell’endecasillabo e della forma sonetto alla lingua ebraica. L’editio princeps delle Maḥberot, che furono anche messe all’Indice, fu pubblicata a Brescia nel 1491 da Geršom Soncino.

Immanuel Romano compose anche alcune poesie in italiano, forse più di quelle che ci sono state tramandate dagli antichi manoscritti, che denotano un certo grado di confidenza con i poeti italiani a lui contemporanei. Il rapporto poetico più significativo, che alla lettura dei testi sembrerebbe indicare anche una certa considerazione reciproca, se non vera e propria amicizia, è senz’altro quello con Bosone da Gubbio, al quale Immanuel inviò un sonetto in occasione della morte di Dante (“Io, che trassi le lagrime del fondo”); Bosone rispose con il sonetto “Duo lumi son di novo spenti al mondo”. Altri tre sonetti trattano della natura di amore (“Amor non lesse mai l’Ave Maria”) e dell’indifferenza nei confronti della passione politica o religiosa (“Io steso non mi conosco, ogn’om oda” e “Se san Pietro e san Paul da l’una parte”); tutti e tre i sonetti presentano però un laicismo e una tolleranza di fondo che non possono essere letti riduttivamente come una forma di opportunismo da parte di un poeta che aveva senz’altro bisogno di protezione dalle autorità politiche delle città nella quale si trovava a dimorare.

Tra le poesie italiane di Immanuel Romano il testo più significativo è senz’altro il Bisbidis, un componimento assimilabile al genere della frottola scritto dopo il 1312, ossia dopo l’inizio del soggiorno presso la corte veronese di Cangrande. Il Bisbidis è strutturato in 53 quartine di senari e il titolo è mutuato dalla trentesima quartina nella quale sono riportati, in forma onomatopeica, i discorsi delle donne di corte: “Bis bis bis, – bisbidìs disbidìs, / bisbisbidis – udrai consigliare”. La frottola descrive la corte veronese di Cangrande, che l’autore afferma nel testo di aver raggiunto dopo un lungo peregrinare, soprattutto attraverso l’evocazione dei suoni che in essa più frequentemente si possono ascoltare e che sono riprodotti con l’uso insistito dell’onomatopea. La corte scaligera è un caleidoscopio di persone che passano veloci sulla scena, imitando anche suoni e rumori con squillanti onomatopee: l’allegro ambiente rappresentato con vivacità è quello della corte, naturalmente ghibellina, e molto internazionale, di Cangrande della Scala, e si possono udire vedere macchine da guerra con i loro soldati e donne impegnate in feste e in tresche; la corte è luogo di dispute dotte e di declamazione di poesie, di cacce e di banchetti e tutto questo è rappresentato da Immanuel in uno stile che ha fatto considerare il Bisbidis un’interessante manifestazione di espressionismo linguistico delle origini.

FONTI:

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  • Gli Scaligeri 1277-1387, a cura di G.M. Varanini, Verona 1988
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  • Shaked, Immanuel Romano. Una nuova biografia, in Immanuel Romano, Maḥberet prima (Il destino), a cura di S. Fumagalli – M.T. Mayer, Milano 2002
  • Treccani.it

a cura di Fabio Scolari