Storia della vite

“Vendemmia”, miniatura tratta dal manoscritto “Miracles de Notre Dame” di Gautier de Coinci, ms. 0551, c.022v, terzo quarto del XIII secolo, Bibliothèque Municipale, Besançon.

Nella storia della vite e del vino è possibile identificare tre epoche:

  • l’età dell’anfora, che va dai primordi della civiltà mediterranea fino alla conquista romana della Gallia Cisalpina e Transalpina. Durante tale periodo il vino, infatti, veniva conservato e trasportato via mare in recipienti di terracotta, tipici delle regioni mediterranee;
  • l’età della botte, che ha inizio con la colonizzazione romana della Gallia e con la introduzione dei recipienti di legno più adatti a conservare il vino nelle regioni settentrionali;
  • l’età della bottiglia, che ha inizio nel XVIII secolo con l’impiego della bottiglia per la produzione del vino spumante.

La viticoltura cominciò a decadere dopo il trasferimento della capitale a Bisanzio e a seguito delle invasioni barbariche (400-500 d.C.), che portarono all’abbandono della campagne ed anche della coltura della vite.

La coltivazione della vite ebbe una graduale ripresa grazie soprattutto al Cristianesimo, infatti i religiosi di ogni ordine tenevano molto alla viticoltura in quanto riforniva il vino per la messa, durante la celebrazione, il vino era bevuto non solo dal prete, ma anche, e pare abbondantemente, da tutti i partecipanti al rito.
Durante il Medioevo i conventi e le abbazie divennero veri e propri centri vitivinicoli, i monaci dell’epoca cercavano di produrre vini di buona qualità e di avere buone rese, anche per accrescere le entrate dei loro ordini. È per questo motivo che numerosi “crus” francesi (Chateauneuf-du-Pape, Clos de Bèze, La Roche-au-Moines, ecc.) hanno origine ecclesiastica.

Tra i vitigni giunti ai giorni nostri per mano dei Benedettini ci sono il Gaglioppo in Calabria, il Greco Bianco in Campania, il Sagrantino in Umbria, il Picolit e il Ribolla Gialla in Friuli. Ai Cistercensi francesi, approdati in Piemonte, dobbiamo invece la coltivazione di perle come la Spanna del nord del Piemonte. Ai Cavalieri di Malta va la nostra riconoscenza per il Bardolino, il Soave e il Valpolicella, in Veneto (nel 1300 si stima che in Valpolicella la superficie agraria dedicata alla viticoltura fosse attorno al 40%). Gli Agostiniani dell’Abbazia di Novacella detengono il primato di una delle più antiche coltivazione di Sylvaner in Alto Adige (1142 d.C.).

In Francia i Cistercensi ebbero un ruolo determinante nel preservare, per esempio, i grandi vini della Borgogna. L’Abbazia Cistercense più famosa è quella di Citeaux che fino alla Rivoluzione Francese restò la più grande produttrice di vino di qualità d’Oltralpe. Tra le vigne di Citeaux, la particella più famosa è il Clos-Vougeot ancora oggi sinonimo di eccellenza.

La splendida abbazia di Novacella nelle vicinanze di Bressanone (BZ) conosciuta per la produzione del pregiato Moscato Rosa

Fra il 500 e il 1000 anche la nobiltà contribuì alla diffusione e conservazione della viticoltura: bere vino all’epoca era espressione della dignità sociale; la nobiltà e le classi emergenti erano orgogliose infatti di offrire nei banchetti vini prodotti nei loro vigneti.

La viticoltura ed il vino diventarono centrali nell’economia agricola di quei tempi, produrre vino diventò una sicura fonte di reddito come testimoniano le leggi e gli statuti emanati in difesa e per la diffusione della vite, nelle norme di trasporto e vendita del vino, nelle date d’inizio della vendemmia.

Nel XV e XVI secolo Venezia diventò il più grande mercato di vini del Mediterraneo.
Il 1453 segnò, però, la caduta dell’Impero Romano d’Oriente e il blocco dell’importazione dall’Oriente da parte dei Turchi spinse i veneziani a incoraggiare la loro produzione nella madrepatria. Essi favorirono l’impianto di nuovi vigneti nei territori intorno a Verona, a Padova e nel Friuli, a Bardolino, a Soave e nella Valpolicella e consigliarono l’appassimento delle uve per produrre vini ad elevata gradazione alcolica.
Si diffuse così nel Veneto la tecnica dell’appassimento delle uve e la produzione dei “Recioto”, ossia dei vini dolci bianchi (Recioto di Soave) e rossi (Recioto della Valpolicella), a sapore semplice, ottenuti dalla vinificazione delle “recie” (le ali dei grappoli), che presentavano una maggiore concentrazione zuccherina.

I VIGNETI

I vigneti medioevali venivano piantati dove possibile scavando solchi profondi, e infilando nel terreno delle semplici talee dell’anno prima senza radici, ad ogni ettaro nel Nord Europa venivano piantate circa ventimila piante, mentre nel Sud erano più rade, circa cinquemila. Non tutte le talee attecchivano e l’anno dopo gli spazi vuoti erano riempiti con talee coltivate in vivaio. Queste al momento dell’impianto avevano radici e si chiamavano barbatelle. Un altro modo per avere barbatelle era di interrare lunghi tralci delle piante già esistenti in modo da avere radici (margotta). La decisione importante riguardava la varietà da piantare, si sceglievano varietà diverse per premunirsi contro la possibilità che uno o più raccolti andassero male. Ogni varietà aveva proprie caratteristiche, quindi c’erano viti che fiorivano tardi ed i frutti maturavano tardi, altre invece che producevano molti grappoli, ma piccoli o viceverse grappoli con acini molto grossi e dal peso consistente, ma quantitativamente pochi.

Molto spesso vi erano litigi tra padroni e fittavoli dovuti alla necessità per i ricchi di avere del buon vino mentre i poveri ne volevano molto. Il vino bianco era considerato più pregiato del rosso ed i vini generalmente avevano un colore chiaro o rosso pallido. Il segnale dell’inizio della raccolta delle uve veniva dato dal proprietario della vigna, ma era anche controllata dai gendarmi comunali che sorvegliavano per ottenere buoni prodotti da mettere in commercio nelle varie rivendite cittadine. Al segnale dato con trombe o campane tutti andavano a vendemmiare. Si calcolava che venti vendemmiatori potessero coprire un ettaro di vigne al giorno. Si faceva vino bianco vergine oppure per ottenere vino rosso si faceva bollire il mosto con le vinacce in tini molto profondi.

Si pigiava direttamente l’uva nel tino, e spesse volte il mosto iniziava subito a fermentare producendo anidride carbonica, questo poteva causare la morte per asfissia dei pigiatori.

Occorreva abilità per giudicare se fosse meglio lasciare tutti i graspi insieme ai frutti o lasciarne solo una parte, maggiori tannini conferivano maggiore acidità al vino ossia gli conferivano più sapore e carattere, ma poi durante la pressatura delle vinacce l’operazione era resa difficile dalle parti solide dei graspi. Solo le tenute dei nobili possedevano un torchio per le vinacce, che serviva ad estrarre dalle uve più di mosto (vino stretto).  Quando il vino aveva finito di fermentare l’unico scopo del produttore povero era quello di venderlo prima che andasse in aceto, quest’ultimo non aveva cantine dove stoccare il prodotto, in aggiunta le botti che possedeva era malridotte e perdevano, in ottobre poi faceva molto caldo ed i carrettieri durante il trasporto al mercato, avevano molta sete quindi parte della produzione andava persa.

Il vignaiolo con il tempo divenne uno specialista ed iniziò ad adottare svariate tecniche atte a migliorare la crescita della vite: l’impianto o scasso, la potatura, l’installazione di sostegni, la zappatura e la torcitura. Ma fu nel periodo del Basso Medioevo che le tecniche di vinificazione fecero il salto di qualità. Vennero realizzate svariate innovazioni, quali la vinificazione separata per le uve bianche e rosse, la vinificazione specifica per le uve passite, la variabilità nella durata della macerazione delle vinacce, e l’introduzione dei filtri a sacco.

COLTIVAZIONE DELLA VITE

Per quanto riguarda i sistemi di moltiplicazione della vite, nell’Italia medievale sono stati registrati soltanto il sistema della talea e quello della propaggine. Il primo modello consisteva in un sistema che prevedeva il taglio di un frammento della vite (poteva trattarsi di una porzione di radice, di fusto, di ramo o di foglia) che, poi, veniva poi piantato nel terreno al fine di dar vita ad un nuovo esemplare.

Il sistema della propaggine, invece, consisteva nel piegare un ramo della pianta così da poterlo interrare parzialmente. Il ramo, inizialmente unito alla pianta madre, veniva reciso non appena avesse sviluppato un sufficiente apparato radicale. Era un sistema adoperato per sostituire le viti improduttive, vecchie o malate, così come per la moltiplicazione degli esemplari.

Nell’Italia medievale, i sistemi di coltivazione della vite furono di tre tipologie:

  • a sostegno morto;
  • a sostegno vivo;
  • senza sostegno.

Per quanto riguarda la messa a coltura a sostegno morto, venivano utilizzate canne e pali. Non è un caso, dunque, che la presenza di un canneto in vigna fosse considerata di grande importanza, spesso nei contratti di locazione, qualora il terreno fosse sprovvisto di un canneto, il proprietario era obbligato a fornire al vignaiolo la quantità di canne necessarie per la coltivazione. Il canneto, inoltre, solitamente veniva collocato ai margini del vigneto, “coltivato” ad hoc.

Per la formazione dei pali era invece preferito soprattutto il legno di castagno, ma venivano usati anche l’abete e il salice. Mentre le canne erano sottoposte soltanto all’aguzzamento, i pali subivano prima la scortecciatura e successivamente si aguzzavano. Il sostegno morto era una tecnica usata specialmente nelle campagne suburbane, dove i filari erano molto stretti, così come pure nelle appendici viticole presenti negli spazi urbani.

Il sistema del sostegno vivo, o dell’alberata, consisteva invece nell’utilizzare anche gli alberi come supporti della vite, dando così luogo ad una coltivazione a viti alte. Parzialmente diffuso già a partire dal XIII secolo, questo sistema si diffonderà soprattutto nell’Italia centrale e nell’area padana durante il Tardo Medioevo, oltre al caso singolare della Campania, dove la coltivazione dell’alberata vantava radici millenarie. Era un sistema che permetteva la coltivazione promiscua: non era raro che fossero presenti nello stesso terreno colture erbacee, arbustive e arboree e, in certi casi, tra un filare e l’altro erano presenti degli spazi destinati al pascolo del bestiame.

Il successo dell’alberata era determinato non soltanto dalla possibilità della coltura promiscua, possibile grazie alla distanza tra i filari e al collocamento alto della vite (che garantivano quindi lo spazio necessario per la messa a coltura, per esempio, dei cereali e delle leguminose), ma anche da altri fattori. Innanzitutto, il fogliame degli alberi usati come supporti, garantiva consumi alimentari agli ovini e ai bovini; in secondo luogo, le piante proteggevano la vite da varie calamità naturali, soprattutto dalle grandinate che impensierivano molto i vignaioli. Infine, i rami ricavati dalle potature erano adoperati per il riscaldamento e in una vasta molteplicità di utilizzi.

Oltretutto, il collocamento alto delle viti facilitava le operazioni di raccolta dell’uva e favoriva il riscaldamento di quest’ultima da parte del sole. Un altro vantaggio da considerare era il risparmio economico, non trascurabile, legato al minor uso di canne e pali.

L’olmo (Ulmus campestris) rimaneva l’albero più usato nel nord. Ha una forte espansione radicale ma è molto longevo, produce ottimo foraggio (le foglie), fascine e legna. Si adatta di più ai terreni fertili ed umidi della Pianura Padana.

Il pioppo (Populus nigra) era utilizzato per via del suo rapido accrescimento e perché produceva foraggio e legna. Non è però così adatto per la vite, perché ha un esteso sistema radicale e chioma folta che ombreggia.

Il gelso (Morus alba) era impiegato molto in Veneto anche se non era proprio adatto. Fa troppa concorrenza alla vite. Tuttavia era utilizzato per mettere insieme due economie: l’uva e l’allevamento del baco da seta.

Illustrazione dai Tacuina sanitatis (XIV sec)

L’altro sistema di coltivazione della vite è quello ad alberello o senza sostegno, tipico delle regioni meridionali (ad eccezione della Campania). Questa tipologia di coltivazione, dove le viti si presentavano come singoli alberelli bassi, si sviluppò prevalentemente nel Mezzogiorno della Penisola per una duplice ragione. Da un lato, fattori antropologici, come la tendenza alla specializzazione delle colture; dall’altro, invece, aspetti climatici: le alte temperature garantivano, anche se la vite era bassa, un adeguato riscaldamento dell’uva da parte dei raggi solari, per cui utilizzare sostegni, vivi o morti, risultava superfluo.

Le fonti a nostra disposizione, per ciò che riguarda l’intero ciclo della vite, sono numerose: innanzitutto, i trattati agronomici tardomedievali, come il Liber ruraliam commodorum di Piero de’ Crescenzi o la produzione di Paganino Bonafede e di Corniolo della Cornia. Accanto a questi documenti, grande importanza la riservano anche gli statuti delle comunità e gli atti notarili.

Analizzando le attività del calendario agricolo, si deve fare attenzione a non fare generalizzazioni, in quanto le operazioni potevano variare in base alle esigenze che si presentavano e in base ai luoghi geografici. Comunque, solitamente, si effettuavano dalle due alle quattro zappature l’anno (si poteva passare anche l’aratro o la vanga). Tra la fine dell’Inverno e l’inizio della Primavera, inoltre, si svolgeva la scalzatura, azione che consisteva nell’allontanare la terra dalla base della vite al fine di ammorbidire la terra e permettere un maggiore assorbimento delle acque piovane. La scalzatura poteva essere accompagnata dalla sbarbettatura, operazione che prevedeva l’eliminazione delle radici superficiali. Tra Primavera ed Estate avveniva la rincalzatura, che consisteva nell’accumulare la terra alla base della vite per mantenere l’umidità sotto il terreno. All’inizio dell’Estate si svolgeva l’occatura, nella quale le zolle di terra venivano sminuzzate ed erano eliminate le erbacce infestanti, un’operazione che poteva aver luogo anche diverse volte nell’arco dell’anno

Per ciò che concerne i lavori sulla pianta, si deve innanzitutto parlare della potatura. Quest’ultima, era un’attività di enorme importanza, che si svolgeva tra gennaio e febbraio, in quanto dal suo giusto svolgimento dipendeva la produttività e la vita operativa della pianta. La potatura avveniva soprattutto attraverso pennati da pergola, roncole e coltelli speciali. I proprietari, inoltre, avevano tutto l’interesse di controllare i lavori e prendere possesso dei rami potati poiché essi potevano avere diverse applicazioni, come ad esempio alimentare il forno bannale. Era un’operazione effettuata con modalità differenti: Paganino Bonafede suggerisce di lasciare almeno tre gemme per una buona potatura, mentre in Sicilia se ne lasciavano due.

In Primavera avveniva la potatura in verde mediante la quale erano tolti i polloni che si formavano sul fusto della vite e sempre in questo periodo venivano sostituiti i pali e le canne deteriorati, permettendo così che i filari riuscissero a sostenere il peso delle viti (canne e pali erano uniti ai filari attraverso rami di ginestra e salice oppure steli di giunco). È bene ricordare che a volte, prima della vendemmia, quindi in Estate, poteva essere effettuata la spampinatura o sfogliatura per favorire la maturazione dell’uva e facilitare le operazioni di raccolta.

Nel Medioevo italiano, la concimazione, effettuata durante le zappature o arature primaverili, raramente veniva praticata usando il letame vista la scarsa disponibilità di quest’ultimo. Erano, dunque, altri i materiali adoperati: dalla paglia alle vinacce, passando ai rami. Per sopperire alla mancanza di concimi di origine animale si ricorreva alla pratica del sovescio, consistente nell’interrare particolari colture, come ad esempio le leguminose, particolarmente ricche di principi nutrienti. L’unica pratica di prevenzione contro i parassiti era quella dell’inviscatura, effettuata tra Marzo e Aprile, mediante la quale la vite veniva cosparsa di vischio per evitare che fosse attaccata dai bruchi che, solitamente, colpivano i rami più giovani – e, quindi, più fragili.

I coltivatori, infine, dovevano vedersela quotidianamente con pericoli difficilmente contrastabili: furti di canne e di pali, tagli e altri danni alla vite, dovuti anche al passaggio di animali. I proprietari cercavano di tutelarsi costruendo muretti a secco, recinzioni, scavando fossati o innalzando siepi. In loro soccorso accorreva anche la legislazione, che cercò sempre di tutelare la viticoltura: in molti statuti era prevista la vigilanza pubblica dei vigneti, la quale a volte poteva essere affiancata dalla vigilanza privata, tant’è che in alcune comunità i proprietari e i vignaioli potevano dotarsi di propri custodi.

Sia benedetto chi
per primo inventò il vino
che tutto il giorno mi fa stare allegro.

Cecco Angiolieri, poeta senese (1260-1312 circa)

 

FONTI:

  • www.dicantinaincantina.it
  • www.vitignievini.it
  • www.veneto.eu
  • www.guadoalmelo.it
  • Cortonesi-G. Pasquali-G. Piccinni, Uomini e campagne nell’Italia medievale, Roma- Bari, Laterza, 2002
  • Archimede, Dizionario dei vini nel mondo, Roma 1994, Gremese editor
  • Pierluigi Catagneto, Vite e vino nel medioevo, ed. Clueb,1989
  • Articoli e ricerche di Giammario Villa, Master Taster e Wine Educator, fondatore di vinomatica.com e consigliere della North American Sommelier Association e docente per UCLA.

a cura della Dott.ssa Greta Lugoboni